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mercoledì 7 ottobre 2009

BICENTENARIO /2 PROCESSO LA GALA. la banda che addirittura sui cucinò un medico

PROCESSO LA GALA
Una feroce banda, capeggiata da Giona la Gala, seminava terrore e morte tra Maddaloni e Arienzo. Un medico, ritenuto un delatore, convocato in montagna, era stato ucciso e fatto a pezzi che qualcuno aveva anche mangiato. Per dare una parvenza di legittimazione alle brutali imprese innalzavano bandiera borbonica. L’assalto alle carceri di Caserta e la liberazione dei prigionieri accreditava la loro figura di insorgenti contro il governo piemontese.
E accreditava anche la voce che il loro referente fosse la giovane regina Sofia, esule a Roma e non rassegnata alla perdita del trono di Napoli.
La banda, braccata dall’esercito e destinata ad una esecuzione sommaria sul porto, trovò modo di imbarcarsi su una nave francese per riparare in Francia.
Ciascun componente della banda era provvisto di passaporto dello Stato Pontificio.
Francia e Stato Pontificio tifavano per il re di Napoli. Nei suoi confronti il Papa aveva un debito. Non più di un decennio prima Pio IX, costretto a fuggire da Roma, aveva trovato rifugio a Gaeta, accoltovi e protetto dal Re di Napoli, padre dello spodestato Francesco. La Francia per conto suo aveva fatto anche di più.
La flotta francese si era messa tra Gaeta e la flotta piemontese per impedire assalti.
E con un battello francese, Francesco II, l’ultimo Re di Napoli, aveva lasciato il territorio del regno.
La nave francese con a bordo i componenti della banda La Gala, diretta a Marsiglia, fece scalo a Genova. Il ministro di polizia, il napoletano Silvio Spaventa, li fece arrestare e tradurre in carcere. Violenta protesta di Napoleone III che denunziava la violazione del territorio francese. Tale era da considerarsi la nave. Pretese che gli fossero consegnati i prigionieri per poi decidere se restituirli o trattenerli in Francia come rifugiati.
Negare la consegna dei prigionieri significava creare un incidente diplomatico e guastare i rapporti con la Francia, del cui aiuto l’Italia, appena unita, aveva bisogno.
Napoleone III mantenne la parola e restituì i prigionieri che furono giudicati dalla Corte d’Assise di Santa Maria C.V. Non disponendo il tribunale di un’aula che potesse accogliere i numerosi imputati e garantire la sicurezza, il processo fu celebrato nella Caserma posta di fronte al carcere, attuale Caserma Pica, dove si appresta ad essere trasferita parte del tribunale. Attesi i risvolti politici del processo, furono presenti numerosi inviati stranieri e un osservatore speciale di Napoleone III per garantire che fossero rispettate le condizioni con cui erano stati restituiti i prigionieri che assegnavano al processo la cognizione dei soli reati commessi, senza riferimenti né espliciti né impliciti, a situazioni politiche.