Sessa Aurunca ( Ferdinando Terlizzi ) – E’ stata depositata, l’altro giorno, da parte del giudice Sergio Enea, della Sezione distaccata del Tribunale di Carinola, la interessante e singolare motivazione dell’assoluzione della signora Maria Francescone da Sessa Aurunca, che costituirà certamente giurisprudenza e darà una valida indicazione ( se non un messaggio ) a tutti coloro che credono di sottrarsi ai propri doveri ( specialmente economici) denunciando strumentalmente i propri dipendenti, mortificandoli, costringendoli a difendersi ed intasando la vie della giustizia per meri fini abietti di interesse personale o familiare.
Ecco in sintesi l’accusa: “perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso in tempi diversi con artifici e raggiri consistiti nell’ inviare tramite il legale Avv. Domenico Stanga, a Sullo Andrea due richieste di pagamento di spettanze. relative ad asserite attività lavorative svolte, rispettivamente presso il supermercato “SISA” sito in Sessa Aurunca di cui il Sullo è legale rappresentante e presso l’abitazione dei coniugi Rosanna Di Resta e Andrea Sullo, come domestica, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in tal modo in errore Sullo Andrea in merito all’effettivo svolgimento di tali attività e a procurarsi l’ingiusto profitto corrispondente alle somme richieste, con corrispettivo danno per la persona offesa evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dell’agente (opposizione della persona offesa).
Nell’ultima udienza, con l’ intervento del pubblico ministero Dott.ssa Angela Izzo ( che aveva chiesto la condanna a 4 mesi di carcere ); della parte civile, Andrea Sullo, rappresentata dall’Avv. Luigi Imperato, ( che si riportava alle conclusioni scritte depositate ); della difesa, Avv.ti Gennaro Iannotti e Dario Pepe, di fiducia per Maria Francescone, ( assoluzione con formula piena; in subordine minimo della pena e benefici di legge ); il giudice Sergio Enea, aveva letto il dispositivo di assoluzione: ”Perché il fatto non sussiste”. Oggi si sono apprese le interessanti motivazioni di quella decisione.
“L’imputata va senz’altro mandata assolta dal reato a lei ascritto perché il fatto non sussiste, - ha scritto il giudice Enea nella sua motivazione ed ha ribadito che - “atteso che il fatto descritto nel capo di imputazione non è sussumibile (“Sussumere” nel linguaggio giuridico significa ricondurre un caso specifico a uno generale che lo possa comprendere N.d.R.) nella fattispecie di cui agli att. 56 e 640 c.p. o in altra fattispecie penale. Secondo l’ipotesi d’accusa, la tentata truffa si sarebbe concretata mediante il mero invio di due lettere con le quali Francescone Maria, per il tramite del suo avvocato, richiedeva alla parte offesa. Sullo Andrea il pagamento di spettanze relative ad asserite attività lavorative svolte rispettivamente presso il supermercato “SISA” sito in Sessa Aurunca, di cui il Sullo era legale rappresentante e presso l’abitazione del Sullo come domestica”.
“L’espletata istruttoria dibattimentale” – continua il giudice Enea - (ed in particolare la deposizione della parte offesa e la produzione documentale della pubblica accusa) ha consentito di appurare che le 2 missive predette recanti rispettivamente la data del 17/01/05 e del 26/01/05, contenevano effettivamente la mera richiesta del pagamento delle spettanze per l’attività lavorativa asseritamene svolta presso la Euromark s.r.l. e presso l’abitazione del Sullo, ma null’altro che comprovasse l’avvenuto espletamento di tale attività lavorativa. V’è pertanto da chiedersi se la mera richiesta del pagamento degli emolumenti per prestazioni lavorative, anche se non effettivamente espletate, rivolte al datore di lavoro, concreti o meno l’ipotesi delittuosa di cui in imputazione”.
“A tale quesito non può che darsi risposta negativa. Al fine dì meglio comprendere la conclusione cui è pervenuto il giudicante e prima di richiamare il contenuto di talune analoghe pronunce della giurisprudenza di legittimità — giova richiamare il mero dettato della norma incriminatrice in esame, l’art. 640 c.p. che punisce chiunque, con artifizi e raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La fattispecie incriminatrice è posta a tutela dell’interesse individuale della libera determinazione della persona offesa, che può venir lesa non già da una mera altrui richiesta di pagamento. per quanto illegittima, ma dalla falsa rappresentazione di una causa legittimante la pretesa economica, realizzata mediante artifizi o raggiri. In altri termini, la norma penale non intende sanzionare la mera richiesta economica illegittima, ma la fraudolenta induzione in errore del soggetto richiesto, che aderisce all’altrui richiesta economica sulla base di una falsa rappresentazione della realtà appositamente predisposta dal reo”.
“Diversamente argomentando, dovrebbe pervenirsi all’inverosimile conclusione che ogni richiesta economica non fondata su un titolo legittimante concreti il delitto di tentata truffa. con la conseguenza che ogni procedimento civile, ove l’attore avanzi una pretesa economica poi non accolta dal giudicante, siccome sempre preceduto da una formale messa in mora, contenga in sé una ipotesi delittuosa (consistente nella richiesta stessa di corresponsione di una data somma di denaro o altra utilità). Tale assunto è tanto evidente che in giurisprudenza non si rinvengono fattispecie analoghe nelle quali oggetto dell’imputazione era la mera pretesa economica formulata con lettera, non accompagnata da alcun artifizio o raggiro volta ad indurre in errore il destinatario della richiesta. Così quanto alla richiesta di corresponsione di una somma di denaro effettuata per corrispondenza, la Suprema Corte ha affermato che essa integra la fattispecie delittuosa in esame soltanto nell’ìpotesi in cui sia accompagnata da mezzi ingannevoli atti a comprovare l’assunto fondante la richiesta e quindi a trarre in inganno il destinatario”.
“È il caso di Cass. n. 1983/69 che ha ritenuto configurabile il delitto di truffa nel fatto di colui che ottenga danaro o altri aiuti economici mediante richiesta epistolare inviata a un numero indefinito di persone, nella quale con mezzi ingannevoli dimostri uno stato di bisogno, in realtà inesistente: o di Cass. n. 5020/80, che ha ottenuto insussistente il tentativo di truffa nella ipotesi dì mera richiesta di pagamento per prestazioni non effettuate (in quel caso anche attraverso la predisposizione di falsi documenti contabili). La giurisprudenza richiamata dalla parte civile a fondamento delle proprie argomentazione (Cass. n. 495/98), ad avviso del giudicante, non fa che confermare tale assunto. In quell’ipotesi la Suprema Corte ha affermato che integra il delitto di tentata truffa non già la mera richiesta infondata di erogazione di una prestazione assistenziale avanzata ad un ente previdenziale, ma la falsa rappresentazione della costituzione di un rapporto di lavoro, tale da indurre in inganno l’ente pubblico sulla effettiva esistenza del rapporto stesso, cui poi consegua una formale richiesta da parte del soggetto agente. È pertanto essenziale componente della condotta criminosa la predisposizione di elementi documentali (falsificati in tutto od in parte) atti a trarre in inganno l’ente pubblico, elementi che, come detto, non si rinvengono nella fattispecie in esame, non avendo la Francescone posto in essere alcun artifizio documentale o di altro genere atto a far apparire verosimile il pregresso svolgimento delle mansioni lavorative”.
“Peraltro, il precedente giurisprudenziale menzionato dalla parte civile consente di operare una ulteriore riflessione, quanto al parametro della idoneità della condotta, secondo un giudizio prognostico a produrre 1‘evento dannoso connotato caratterizzante il tentativo di delitto. In tutti i casi giurisprudenziali nei quali la tentata truffa è stata integrata mediante la falsa rappresentazione della costituzione e svolgimento di un rapporto di lavoro la richiesta economica e stata inoltrata non già al datore di lavoro, ma ad un ente terzo (INPS, INÀIL. etc.). che non avendo la possibilità di operare un immediato riscontro circa la veridicità delle asserzioni del richiedente, è tenuta ad erogare la prestazione assistenziale o previdenziale, sulla scorta di dati documentali prodotti dal richiedente medesimo. Ben diverso e il caso in cui la richiesta economica sia rivolta al datore di lavoro che e perfettamente in grado di operare un controllo immediato dell’ identità dei suoi dipendenti e che pertanto non può di certo esser tratto in inganno da documentazione esibita dal richiedente e eventualmente attestante la sussistenza del rapporto di lavoro”.
“In altri termini, il datore di lavoro e sempre in grado di conoscere l’identità e numero dei lavoratori da lui impiegati (soprattutto nell’ipotesi di lavoro domestico o di lavoro espletato presso un piccolo esercizio commerciale quale quello in esame), onde giammai può esser tratto in inganno da una richiesta proveniente da un soggetto che asserisce di essere stato suo dipendente. Quindi, ove anche la Francescone avesse allegato alle richieste documentazione tesa a comprovare la sussistenza del rapporto di lavoro al fine di ottenere da Sullo il pagamento delle proprie spettanze, tale condotta sarebbe comunque stata inidonea a trarre in inganno la parte offesa, onde verrebbe comunque meno il parametro di cui all’art. 56 c.p.. Alla luce delle suesposte argomentazioni è evidente che il prosieguo dell’istruttoria si palesava del tutto superfluo, siccome volto a dimostrare da parte della pubblica accusa ( e della parte civile) la insussistenza del rapporto di lavoro e da parte della difesa, l’esatto contrario, atteso che, ove anche fosse stata acquisita la prova della insussistenza del detto rapporto e la conseguente infondatezza della pretesa economica avanzata dall’imputata, per il tramite del difensore, con le missive di cui in imputazione, non sarebbe stata comunque integrata la fattispecie incriminatrice della tentata truffa”.