La Rete fornisce accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento politico e anche stimoli all'aggregazione e manifestazione di consensi e di dissensi. Ma non c'è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed efficace alla formazione delle decisioni pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da vincolare all'imperativo costituzionale del "metodo democratico".

DALLO STRALCIO DEL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO
ROMA 22 APRILE 2013


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sabato 22 settembre 2012

LA VERA STORIA DEL TRIBUNALE DI SANTA MARIA CPUA VETERE SCRITTA E LETTA DALL'AVVOCATO GIUSEPPE GAROFALO AL BICENTENARIO DEL 9 OTTOBRE 2009

Con la Legge organica del 17 febbraio 1861 fu introdotta nell’ordinamento giudiziario per i giudizi di corte d’assise, la giuria popolare che la costituzione repubblicana elaborata da Mario Pagano prevedeva e che i francesi non introdussero malgrado vigesse in Francia.

La legge organica richiamò in vita un istituto che nell’antica legislazione napoletana aveva scritto pagine di storia giudiziaria: l’avvocato dei poveri.

Per questo organismo, data l’attualità della materia, va spesa qualche riga in più.

La legislazione del regno di Napoli, sveva, angioina, spagnola, non ha mai ignorato o trascurato il problema della difesa di coloro che per mancanza di mezzi finanziari erano impossibilitati a sostenere e difendere i loro diritti e ragioni.

La 33^ costituzione di Federico di Svevia, secondo la compilazione di Pier delle Vigne, pubblicata nel 1231 nell’assemblea di Melfi, stabiliva che i minori, le vedove, gli orfani e i poveri, andavano difesi, anche se la lite era contro il fisco, da avvocati esercenti la libera professione forense, pagati dall’Erario, di volta in volta per le loro prestazioni, esenti da qualsiasi spesa di Giustizia, comprese le indennità a testimoni.

A distanza di 700 e più anni l’attuale legge sul gratuito patrocinio non è riuscita a fare di meglio. Potrebbe definirsi una copia monca rispetto a quella di Melfi.

Malriuscita perché la Costituzione di Federico non si fermava alla difesa giudiziaria in senso stretto. Andava oltre. Prevedeva la somministrazione di alimenti ai litiganti poveri perché potessero attendere più tranquillamente alle loro cause. Non erano previsti limiti di spesa.

I Riti della Vicaria, in particolare il 23°, pubblicati dalla regina Giovanna II, circa due secoli dopo, non alterarono il principio, ma restrinsero la borsa.

Gli avvocati che assumevano la difesa dei poveri erano, sì pagati dall’erario, ma nei limiti della ripartizione dei proventi, cioè delle pene pecuniarie pagate dai condannati, tra i Giudici dei tribunali. All’epoca l’amministrazione della giustizia cercava di autofinanziarsi. Furono poi gli Aragonesi a risolvere il problema della difesa dei non abbienti, in maniera rivoluzionaria, che i moderni legislatori non immaginano nemmeno.

Sua maestà Alfonso D’Aragona con la XIV grazia del 1473, istituì presso la Gran Corte della Vicaria e ciascun tribunale provinciale del Regno, l’ufficio dell’avvocato dei poveri.

L’avvocato dei poveri non era più un privato pagato dallo Stato, ma un funzionario dello Stato il cui ufficio era parte organica dei Tribunali.

Veniva nominato allo stesso modo con cui venivano nominati i Giudici ed aveva uno stipendio annuo pressoché pari a quello dell’avvocato fiscale (p. m.) del quale assunse il ruolo di contrappeso. Godeva di vari privilegi: aveva la precedenza nelle udienze; difendeva a capo coperto davanti al Sacro Consiglio. Prima che le indagini venissero chiuse, gli atti del processo dovevano essere consegnati all’avvocato dei poveri per eventuali contestazioni e richieste. Delle tre ore di servizio pomeridiano, i Giudici erano obbligati a dedicargliene una. I due avvocati dei poveri presso la Gran Corte della Vicaria oltre ai non abbienti di Napoli e della Provincia di Terra di Lavoro, assumevano la difesa in appello di tutti gli altri condannati dai Tribunali Provinciali. Un compito particolarmente gravoso che comportava una corrispondenza, imposta per legge, con i colleghi che avevano difeso i condannati davanti ai Tribunali Provinciali di prima istanza. In più occasioni gli avvocati dei poveri della Gran Corte della Vicaria si avvalsero dei processi loro affidati per affrontare questioni di principio valide non solo per i poveri.

La più significativa fu quella sulla rilevanza della ignoranza della legge penale in una società analfabeta soffocata da legislazione sterminata, in parte superata dal tempo, ma sempre tutta in vigore. Fu sollevata dall’avvocato dei poveri davanti al Sacro Consiglio per strappare alla forca un condannato della Gran Corte della Vicaria per il furto di un mantello in particolari circostanze di tempo e di luogo. La Repubblica Napoletana era consapevole dell’importanza della difesa dei non abbienti e non ignorava i precedenti. Non si sa perché abbandonò l’ufficio dell’avvocato dei poveri, che era una realtà, per incamminarsi sulla via dell’assistenza affidata a privati.

Il 25 Febbraio 1799 il Comitato di Polizia generale del Governo provvisorio, premesso che era intendimento della Repubblica non processare le opere pie, invitò la congregazione di S. Ivone a “seguitare la detta opera in tutti i suoi rami, secondo il metodo antico, con quello zelo e fervore, che si conviene ad un vero cittadino.

Salute e Fratellanza”.

Per comprendere il significato di questo invito è necessario qualche chiarimento. La Congrega di S. Ivone era un’opera pia, i cui componenti erano i più noti avvocati e i più alti magistrati. Il loro compito era quello di assistere i poveri nelle cause civili, fossero attori o convenuti.

Il povero che non aveva la possibilità di affrontare un giudizio civile contro un ricco o un potente, si rivolgeva alla Congrega che, esaminata e dibattuta la questione, se la riteneva giusta e difendibile, la curava in proprio, affidandola a un avvocato confratello. Essere confratello della Congrega di S. Ivone era un grande onore e conferiva prestigio.

I confratelli avvocati nelle cause sostenute per conto della Congregazione avevano la precedenza su tutti.

Per le cause penali la Sala Patriottica, un’ associazione politica, istituì un ufficio, una specie di patronato, affidato a tre avvocati, per la difesa dei poveri e si affrettò a chiarire che quello era un “concerto privato “ della Sala per “beneficiare l’umanità afflitta dal passato governo”.

La Legge organica del 17 febbraio 1861 che riportò nell’ordinamento giudiziario del regno unitario l’avvocato dei poveri, era stata preceduta dalla Legge preunitaria 13 febbraio 1859 di Urbano Rattazzi, ministro piemontese con Cavour. La legge Rattazzi (art. 3), valida per il regno sabaudo, dichiarava gli avvocati dei poveri e i loro sostituti “funzionari dell’ordine giudiziario” alla pari “dei giudici di ogni grado, gli uffiziali del pubblico ministero, e i segretari”. Più dettagliata su questo punto la Legge organica del 17 febbraio 1861 (art. 169) estesa dal 1862 a tutto il regno: ”l’avvocato dei poveri ed i suoi sostituti hanno gli onori della magistratura e siedono nel Tribunale o Corte cui sono addetti nelle adunanze generali prevedute dall’art. 129 (inaugurazione anno giudiziario) della presente legge, ed intervengono coi tribunali e le corti in tutte le solenni cerimonie a cui questi magistrati sono chiamati”.

Solo 3 anni durò l’avvocatura dei poveri presso il tribunale di Santa Maria. Fu soppressa con Legge 6 dicembre 1865 per motivi finanziari. Al suo posto fu introdotto il gratuito patrocinio e l’avvocato d’ufficio. A quella legge si uniformò il Decreto 30 Dicembre 1923, rimasto in vigore fino al 1990 e seguito dal Testo Unico 30 maggio 2002 n. 115, con tutte le anomalie. La classe forense che si riunisce oggi in convegno nazionale, nel rispetto delle sue tradizioni, può intervenire per sanarle.



Più volte nella sua storia sul Tribunale di Santa Maria, il più grande delle provincie meridionali, dopo Napoli, è caduta l’attenzione internazionale per processi, dai risvolti politici o di grande interesse collettivo, che vi si celebravano.

Di questi mi limito a ricordarne solo alcuni.



PROCESSO LA GALA

Una feroce banda, capeggiata da Giona la Gala, seminava terrore e morte tra Maddaloni e Arienzo. Un medico, ritenuto un delatore, convocato in montagna, era stato ucciso e fatto a pezzi che qualcuno aveva anche mangiato. Per dare una parvenza di legittimazione alle brutali imprese innalzavano bandiera borbonica. L’assalto alle carceri di Caserta e la liberazione dei prigionieri accreditava la loro figura di insorgenti contro il governo piemontese.

E accreditava anche la voce che il loro referente fosse la giovane regina Sofia, esule a Roma e non rassegnata alla perdita del trono di Napoli.

La banda, braccata dall’esercito e destinata ad una esecuzione sommaria sul porto, trovò modo di imbarcarsi su una nave francese per riparare in Francia.

Ciascun componente della banda era provvisto di passaporto dello Stato Pontificio.

Francia e Stato Pontificio tifavano per il re di Napoli. Nei suoi confronti il Papa aveva un debito. Non più di un decennio prima Pio IX, costretto a fuggire da Roma, aveva trovato rifugio a Gaeta, accoltovi e protetto dal Re di Napoli, padre dello spodestato Francesco. La Francia per conto suo aveva fatto anche di più.

La flotta francese si era messa tra Gaeta e la flotta piemontese per impedire assalti.

E con un battello francese, Francesco II, l’ultimo Re di Napoli, aveva lasciato il territorio del regno.

La nave francese con a bordo i componenti della banda La Gala, diretta a Marsiglia, fece scalo a Genova. Il ministro di polizia, il napoletano Silvio Spaventa, li fece arrestare e tradurre in carcere. Violenta protesta di Napoleone III che denunziava la violazione del territorio francese. Tale era da considerarsi la nave. Pretese che gli fossero consegnati i prigionieri per poi decidere se restituirli o trattenerli in Francia come rifugiati.

Negare la consegna dei prigionieri significava creare un incidente diplomatico e guastare i rapporti con la Francia, del cui aiuto l’Italia, appena unita, aveva bisogno.

Napoleone III mantenne la parola e restituì i prigionieri che furono giudicati dalla Corte d’Assise di Santa Maria C.V. Non disponendo il tribunale di un’aula che potesse accogliere i numerosi imputati e garantire la sicurezza, il processo fu celebrato nella Caserma posta di fronte al carcere, attuale Caserma Pica, dove si appresta ad essere trasferita parte del tribunale. Attesi i risvolti politici del processo, furono presenti numerosi inviati stranieri e un osservatore speciale di Napoleone III per garantire che fossero rispettate le condizioni con cui erano stati restituiti i prigionieri che assegnavano al processo la cognizione dei soli reati commessi, senza riferimenti né espliciti né impliciti, a situazioni politiche.



PROCESSO ALLA BANDA DEL MATESE

Carlo Cafiero, di ricca famiglia pugliese, socialista e internazionalista e Enrico Malatesta di S. Maria C. V. discepolo di Bakunin, anarchico alla testa di un pugno di uomini tentarono di provocare una sollevazione delle popolazioni meridionali contro il governo. Nella primavera del 1877 si concentrarono, in tutto una ventina di uomini, sul massiccio del Matese.

Intercettati dalla polizia nei pressi di S. Lupo in provincia di Benevento aprirono il fuoco e uccisero un carabiniere e né ferirono un altro.

Attraverso sentieri di montagna ripararono in provincia di Caserta dove, nei comuni di Gallo e Letino, dichiarato decaduto il Re, proclamarono la repubblica sociale. Accerchiati e arrestati tutti, furono rinchiusi nel carcere di S. Maria C. V. Contro gli arrestati furono aperti due processi, uno presso la procura del Re di Benevento per l’omicidio e il ferimento dei due carabinieri e l’altro presso la procura di S. Maria C. V. per attentato alla sicurezza interna dello Stato. L’istruttoria a S. Maria C. V. fu complessa e di largo respiro, anche se su di essa pendeva la minaccia del ministro dell’interno Giovanni Nicotera, di investire del processo un Tribunale Militare. A conclusione, il Procuratore Generale chiese l’unificazione dei due processi e il rinvio a giudizio degli imputati davanti la Corte di Assise di S. Maria C. V. Venuto a morte il re, Vittorio Emanuele II, il nuovo re, Umberto I, proclamò l’amnistia per i reati politici. Rimasto il solo carico dell’uccisione e del ferimento dei due carabinieri, ritenuto reato comune, gli imputati furono rinviati a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Benevento, competente per territorio. I giudici di quella Corte assolsero tutti gli imputati.

Il tribunale e il carcere di S. Maria C. V. nella pendenza del giudizio finirono sui giornali di tutta Europa, non solo per l’aspetto politico del processo e la pericolosità degli imputati, ma anche per un episodio singolare, quasi di colore, che suscitò ilarità e incredulità, anche esse a livello internazionale.

Il 21 giugno 1877 il console d’Italia a Ginevra informò il ministro dell’interno che gli internazionalisti della “Banda del Matese” capeggiata da Carlo Cafiero ed Enrico Malatesta, prigionieri nelle carceri di S. Maria C. V. in attesa di giudizio innanzi alla Corte d’Assise di Benevento, erano riusciti a far pervenire una loro lettera al Bureau federale di Neuchàtel. Alla richiesta di spiegazioni del ministro, il direttore delle carceri e il procuratore del Re di S. Maria C. V. esclusero categoricamente che il fatto potesse essersi verificato sia perché gli agenti di custodia addetti alla sorveglianza erano persone di provata fede, sia perché i prigionieri erano guardati a vista in ogni movimento del giorno e della notte. Ad ogni buon conto per scrupolo professionale il direttore diede ordine di privare i detenuti di qualsiasi strumento di scrittura e dispose che i prigionieri potevano scrivere due volte alla settimana alla presenza delle guardie e in una sala apposita su carta e con penna fornita al momento dalla direzione del carcere.

Dopo solo 20 giorni il ministro allarmato informò il direttore delle carceri che alla riunione del comitato della sezione italiana di Ginevra, Andrea Costa aveva tirato fuori un’altra lettera di Carlo Cafiero proveniente dalla prigione di S. Maria C. V.

Il direttore rispose per la seconda volta che il fatto era impossibile e che il tutto era una millanteria degli internazionalisti diretti ad accreditare una forza inesistente. Esasperò ancora lo scrupolo professionale e fece sorvegliare i sorveglianti dentro e fuori la prigione. Per quasi un mese Carmine Esposito, un agente di custodia fece impazzire il commissario di S. Maria C. V. ed altri esperti indagatori fatti venire apposta.

Smontato dal servizio, ogni giorno se ne andava alla stazione e se ne stava in contemplazione a vedere passare i treni. La Svizzera e i treni facevano giurare che fosse lui la talpa: tutti i sospetti risultarono infondati.

Carmine Esposito era nient’altro che un romantico che si contentava di affidare ai treni i suoi sogni di terre lontane.

I prigionieri furono trasferiti dal 10° comprensorio, il nucleo di agenti fu cambiato e il nutrito drappello di soldati di guardia all’esterno rinforzato. Le palomme non hanno mai conosciuto barriere.

A distanza di poco meno di due mesi il giornale “L’Anarchia” di Napoli scrisse che gli internazionalisti prigionieri, nel carcere di S. Maria C. V. si erano costituiti in sezioni col nome di “Banda del Matese” e che avevano inviato ad Andrea Costa il mandato, sottoscritto da tutti, a rappresentarli al congresso di Verniers. Come se la notizia non bastasse, il “Buletin de l’Association des travailleurs”, che si stampava a Sonvillieurs, cantone di Berna, pubblicò il testo del mandato con le firme dei detenuti. Il solito direttore diede la solita versione: le firme erano apocrife perché non era assolutamente possibile che i detenuti, rinchiusi in camerate diverse, avessero potuto firmare lo stesso foglio.

Il Ministro lo mise a tacere perché si accertò che le firme erano autentiche. Artefici dell’operazione erano stati due camorristi, il detenuto Vincenzo Esposito e il prestinaio esterno Camillo Palmiero, figlio di quel Ferdinando Palmiero, “pedecchiuso” uno dei capi camorra di Caserta, arrestati nella repressione del ‘62. A distanza di tempo fu sequestrata la micro attrezzatura per scrivere che solo i camorristi possedevano ed erano in grado di fornire. Andrea Costa rivelò ai compagni esuli in Svizzera che per ogni documento che usciva dal carcere, Cafiero pagava 40 lire.



PROCESSO CARNEVALE

Era stato rinviato dalla Corte di Cassazione da Palermo alla Corte di Assise di S.Maria C.V.

Salvatore Carnevale, socialista, sindacalista, guidava il movimento popolare per l’occupazione delle terre. Fu ucciso una mattina mentre percorreva un “tratturo” per recarsi al lavoro.

Furono arrestati quali autori dell’omicidio quattro “campieri”, indicati come mafiosi di un feudo della principessa Notarbartolo.

L’istruttoria presso il tribunale di Palermo fu agitata da manovre sotterranee per scagionare gli imputati. Silenzio dei testimoni, falsi alibi, ritrattazioni di dichiarazioni già rese furono il terreno per invocare la legittima suspicione. Il processo davanti la Corte di Assise di Santa Maria fu lungo e a volte drammatico. Gli imputati furono condannati all’ergastolo e fu segnalato che quella era la prima sentenza che interrompeva l’abituale serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Vari furono i motivi che richiamarono a Santa Maria la stampa internazionale:

1) lo sfondo politico e mafioso del processo;

2) il libro di Carlo Levi” Le parole sono pietre” riferito al linguaggio asciutto e di denunzia di Francesca Serio la madre dell’assassinato;

3) la presenza al processo dello stesso Levi, interessato anche a verificare se gli imputati corrispondevano ai connotati morali che la Serio gli aveva attribuito e a lui riferiti in lunghi colloqui.

La serie di assoluzioni si interruppe solo per un momento per riprendere, con l’assoluzione degli imputati in appello, il suo corso.



Parlare del passato remoto del tribunale non mi è stato difficile.

I documenti costituiscono una guida sicura. Parlare del suo passato prossimo è stato più difficoltoso perché il tempo non ha ancora ingiallito le carte.

Parlare del tribunale oggi è estremamente difficoltoso, a meno che non ci si voglia fermare alle esteriorità fatte di arresti in massa, maxiprocessi e condanne all’ergastolo. Il lettore sprovveduto potrebbe confonderle con quelle che seguirono la famigerata Legge Pica (1863-1865). Il tempo rimetterà al loro posto, nella speranza che non ne manchi alcuna, le tessere del mosaico della giustizia.



S. Maria C. V., 9 Ottobre 2009

Avv. Giuseppe Garofalo